Da bambina pensavo a tutto tranne che il mio lavoro sarebbe stato quello di scrivere.
Certo, in italiano andavo bene. Adoravo fare i temi e ricordo che una volta, alle elementari, la maestra Silvana aveva letto un racconto che avevo scritto ai miei compagni di classe, dicendo che ero proprio portata.
In realtà io volevo fare la benzinaia. Mi ispirava così tanto questo lavoro che facevo le prove a casa di nonna. Lei stava seduta sulla sedia, faceva finta di tirare giù il finestrino dell’auto e io le chiedevo se voleva il pieno. Chiacchieravamo del più e del meno, mi pagava usando dei soldi simili a quelli del Monopoli e io mi allenavo a dare il resto giusto.
Poi sognavo di fare la ballerina
Dopo un po’ la storia della benzinaia ha iniziato a starmi stretta e così ho deciso che da grande sarei diventata un ottimo medico: mi piaceva quando la dottoressa prescriveva le ricette con la sua calligrafia incomprensibile, a casa la imitavo facendo scarabocchi e inventandomi nomi di medicine che risolvevano i disturbi più disparati.
Alla fine, neanche il medico mi sembrava il lavoro più adatto a me e così ho alternato momenti in cui volevo fare l’archeologa, l’hostess o l’insegnante di musica.
Un giorno mi sono iscritta a danza e tutti i miei sogni – e il mio cuore – sono finiti lì. Non ci ho mai creduto davvero, di fare la ballerina dico, ma il mio era un amore incondizionato: andavo a lezione tutti i giorni, sperimentavo nuove discipline, immaginavo di essere Bombalurina di Cats e a quanto sarebbe stato bello fare l’audizione finale di Flashdance.
Ci tenevo così tanto che una volta ho obbligato mia madre ad accompagnarmi in macchina per fare un colloquio come insegnante di danza moderna, avevo la febbre altissima e non riuscivo a guidare da sola.
E così, un po’ per caso devo ammettere, ho iniziato ad insegnare danza. Frequentavo ancora l’università, tenevo le lezioni in tre scuole diverse e continuavo come allieva nella scuola della mia città.
Insegnavo quasi tutti i giorni, due/tre ore al giorno, nel tardo pomeriggio. Mi piaceva tantissimo poter trasmettere la mia passione a qualcun altro e le storie assurde di ottenni in scaldamuscoli e trecce avevano il potere di farti dimenticare in un nanosecondo qualsiasi tipo di problema.
Nessuno mi assumeva part-time
Dopo la laurea e una serie di stage non retribuiti in web agency, le cose sono diventate più complicate: nel ridente Canavese non c’erano lavori nell’ambito comunicazione e trovare un’occupazione legata al mio percorso di studi voleva dire viaggiare tutti i giorni a Torino. Non che mi spaventasse prendere un treno o alzarmi presto, sia chiaro: un lavoro a Torino significava abbandonare l’insegnamento, quello che avevo di più caro e che all’epoca mi dava una piccola stabilità.
Visto che dovevo essere a lezione nella seconda parte della giornata, ho provato a cercare un lavoro part-time o a candidarmi per posizioni a tempo pieno, tentando di contrattare sull’orario.
Niente, nessuno mi voleva per mezza giornata. O full time con uno stipendio super basico o niente. Ok, niente.
Alla fine ho googlato
La svolta per me è stata cercare lavori a spot su Google, o meglio, sul forum di Giorgiotave. Mi proponevo rispondendo ad annunci di agenzie e privati e, come nelle precedenti esperienze, mi occupavo di contenuti.
Scrivevo comunicati stampa (tantissimi comunicati stampa) e blog post. Per un po’ ho anche provato a fare SEO, ma ho capito subito che quel lavoro non faceva per me. Un giorno a settimana lo dedicavo a leggere libri sulla scrittura professionale e partecipavo ad eventi sul digitale per rimanere informata sulle evoluzioni del web. Nel frattempo ho iniziato ad occuparmi anche dei testi dei siti. Mi esercitavo a scrivere per conto mio. Mi facevo pagare con ritenuta d’acconto.
In quegli anni abitavo ancora con i miei, non avevo l’ansia di arrivare a fine mese, passavo le giornate al PC in salotto, con papà che ogni tanto veniva a controllare cosa stessi facendo per poi chiedere di nascosto a mamma se avevo bisogno di aiuto per trovare un lavoro vero.
Pian piano ho preso il giro: avevo un paio di agenzie che mi assicuravano delle entrate mensili, dei clienti che andavano e venivano e le mie lezioni di danza la sera.
Dopo un anno a questi ritmi, un briciolo di incoscienza e nessun business plan in mano, ho aperto partita iva. Così, a 25 anni. Senza sapere cosa mi aspettasse, senza sapere cosa volesse dire davvero.
«Tanto, al massimo, sono sempre in tempo a chiuderla».
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