Quello che scrivo non è mio
La storia è sempre la stessa e si svolge più o meno così: accetti il lavoro da un nuovo cliente, gli sottoponi il questionario con un sacco di domande, vai di Skype call e incontri dal vivo per approfondire l’argomento, studi per affari tuoi, dai inizio alla fase creativa.
Scrivi. Cancelli. Scrivi di nuovo. Limi. Rafforzi. Tagli. Cuci. Leggi. Lasci passare del tempo. Respiri. Rileggi ad alta voce.
I testi che hai realizzato funzionano, sono proprio come te li eri immaginato, le parole filano lisce una dopo l’altra, il ritmo non scende, il messaggio arriva forte e chiaro. Insomma, sei soddisfatto.
Consegni il lavoro al tuo cliente e inizi a fare il refresh della tua casella email nell’attesa spasmodica di una risposta (che dai, su, dopo 8 anni avrai imparato che mica arriva subito, no?).
Poi, ecco l’email con le correzioni.
Il cliente ha quasi sempre ragione
In qualsiasi lavoro di copy, il committente ha il sacrosanto diritto di dire la sua: mi piace, è proprio quello che avrei voluto dire io, questa frase invece non la trovo abbastanza coerente, qui userei questa parola, questo passaggio è da rivedere. Ci sta. Si sta parlando della sua comunicazione, della sua attività, del suo messaggio, non del tuo.
Per quanto tu possa aver interpretato un concetto nel modo migliore possibile, è normale che ci sia qualche sfumatura che sfugge, anche se hai passato le ultime settimane a studiare le corone epicicloidali e ti sei scervellato notte e giorno per raccontarle nel modo più sexy del mondo.
Se all’inizio mi irrigidivo sulle modifiche e me la prendevo perché mi convincevo di non aver scritto abbastanza bene, con il tempo ho capito che una parte del mio lavoro è accompagnare i miei clienti verso una comunicazione più utile e interessante, anche se non sempre perfetta come avrei voluto io.
Quindi, ok a sostituire un termine con un altro che piace di più, usare una frase piuttosto di un’altra per quanto sia meno fluida se messa vicina alle altre.
Il mio cliente non sono io, non sono io che pago la fattura, non spetta a me il giudizio finale.
C’è un però
Le modifiche ai tuoi testi sono accettabili finché non incidono sulla tua professionalità.
A questo proposito, mi è capitato in passato di accettare un lavoro per dei testi di una brochure: argomento non troppo complesso, compenso pagato tutto in anticipo (wow!), il giusto tempo a disposizione. Insomma, dovevo solo darmi da fare. Scrivo i testi, li consegno al cliente e lui me li rimanda inserendo in diverse frasi la virgola tra soggetto e verbo, lamentando la mia disattenzione e scarsa competenza.
A nulla è valso prendere il telefono e spiegare, né linkare crusche e grammatiche varie. Non ha voluto sentir ragioni: quelli che erano errori, gravi, per lui rappresentavano una mia mancanza. È andato in stampa così. Il mio nome non compariva in quella brochure, ma immagini il danno che ne sarebbe derivato se invece ci fosse stato?
Questa è una storia al limite del surreale, a un certo punto speravo si trattasse di una Candid Camera, ma mi sono trovata in altre situazioni difficili in cui mi è stato chiesto di inserire termini aziendalesi, burocratesi, o il solito servizi a 360 gradi.
Il nostro diritto
Se il cliente ha il diritto di modificare un mio lavoro perché lo paga, io ho il diritto di non riconoscere quel lavoro come mio perché snatura la mia professionalità. E noi copy, grafici, social media manager, comunicatori, dovremmo pretenderlo sempre: un contenuto rimaneggiato, che non è del tutto farina del nostro sacco, non può svalutare chi siamo e mettere in pericolo quello che ci siamo costruiti con fatica e impegno.
Quello che scrivo non è mio: anche se tutte le volte mi affeziono, bisogna lasciarlo andare. Così, nel bene e nel male.